Original: Mein Deutschland – Chronik einer zweiten Heimat

Franz war jung und wollte den Bildern auf der Leinwand glauben: Lest hier in der italienischen Originalfassung die Geschichte einer Liebe zu Deutschland, das es so wohl nie gab.

von Franz

Si dice che il piccolo schermo abbia ucciso quello grande.
Si dice, ancora, che l’internet abbia ucciso, tra le molte altre cose, anche il piccolo schermo e con lui anche le buone vecchie serie tv – sapete, quelle a puntate –, da quando queste sono tutte, facilmente, accessibili e scaricabili. Dopo tutto, se possiamo vedere tutte le puntate una dopo l’altra gratuitamente, istantaneamente, illimitatamente e costantemente, perché allora aspettare una settimana fra l’una e l’altra? In un tempo come quello di oggi, quando non si può più scegliere per troppo imbarazzo della scelta, la scelta stessa avviene per negazione. Non più l’oggetto generalissimo, ma il particolarissimo ci interessa. Il che in realtà apre alle persone scenari molto interessanti. O almeno, a me li ha aperti.
Nel 2008 ero già studente, facevo la triennale lì giù da noi, non parlavo ancora il tedesco e mi piaceva più la birra che il vino, ancora: un ragazzo italiano sostanzialmente unilingue, come tanti. Troppo normale per appartenere al mondo sofisticato dell’intelligencija, troppo curioso per non sapere della sua esistenza. Già allora detestavo le serie angloamericane generalistiche propinate dalla televisione – le avrei detestate di certo anche se fossero state belle: già allora inconsciamente covavo la convinzione che non solo la cultura di massa, ma le stesse sottoculture cosiddette “alternative” fossero forme del conformismo e che la diversità assoluta, in se e per se, fosse un valore ancora più alto della qualità stessa, nella (contro)cultura come in tutto. E la cultura per me era: tutto.
Un giorno, una ricerca su torrent mi ha rivelato l’esistenza di 3 serie cinematografiche tedesche. Se solo avessi saputo che la condivisione su torrent in Germania era concretamente punibile, avrei immediatamente ringraziato di persona quell’anonimo condivisore che per me rischiava una querela. Quelle serie portavano il nome Heimat, patria, del regista Edgar Reitz: ovviamente non sapevo chi mai fosse, ma già quel nome bastava ad affascinarmi (ché Reiz=fascino), e quella trilogia segreta doveva essere mia, a costo di imparare la lingua segreta e difficilissima, e perciò tanto più affascinante, in cui era girata.
Allora ricordo di aver letto che appena 0,001% del mio paese conoscesse il tedesco: per diffidenza, per pigrizia, si diceva che avvicinarsi a questa lingua e a questa cultura fosse “difficile”. – «Attento Franz, tuo cognato non ce l’ha fatta ad imparare il tedesco – ci ha rinunciato!» Un complesso di inferiorità per me inaccettabile, che mi suonava di fascino e sfida. Le per me nuove parole quali Sehnsucht, il “dolore da desiderio”, e Fernweh, la “brama di lontananza”, anziché concettualizzare sentimenti già familiari, mi provocavano dentro, per mia stessa disposizione, quelle emozioni estranee, straniere, esaltandomi. Fortunatamente avevo trovato dei sottotitoli amatoriali in italiano, cosa che almeno mi ha aiutato ad approcciarmi alla prima serie, con la sua parlata renana zeppa di regionalismi, svegliando l’ansietà per la seconda. Ed è stata proprio la seconda serie, “Cronaca di una giovinezza in 13 puntate”, che, quello stesso anno, ha cambiato tutto. Nella serie si racconta di una cerchia di artisti riunita in una villa patrizia a Monaco negli anni ’60: scrittori, pittori, cineasti, e soprattutto musicisti. Artisti riuniti al fine della creazione pura, di giorno – e soprattutto di notte, senza il pregiudizio della produttività e senza l’obbligo della modestia. Uomini giovani, donne belle, e soprattutto amanti gli uni le altre, dove però l’amore è una pura conseguenza dell’arte – non viceversa. Durante quelle oltre 20 ore si racconta un mondo appunto artificioso, utopico, perfetto, dove perfino le piccole grandi tragedie che lo toccano sembrano studiate per confermare la sua perfezione. È scontato dire che il risultato di questa comune creazione inscenata è proprio la serie stessa, opera d’arte totale, che realizza lentamente e costantemente un mondo appunto artefatto, migliore del mondo stesso, e una vita modello, migliore della vita stessa.
La prima grande lezione di vita che le tredici parti della cronaca mi hanno confermato, per contrasto, è che tutte le cose veramente belle, anzi sublimi, sono per definizione segrete e difficili. Il che non implica che tutto ciò che è segreto e difficile sia per forza bello e sublime – ma questo l’avrei capito soltanto dopo.
Di certo, se non mi fossi messo a trascrivere queste reminiscenze, penso che probabilmente non mi sarei mai ricordato la maniera totalmente assurda in cui guardavo quella serie: come un allucinato, fermavo l’immagine ogni due per tre, per, ripetendo le battute dei personaggi, esercitare così la pronuncia e la memoria attraverso le parole. Dunque quella lingua “difficile” non l’ho mai, propriamente, “studiata”.
Forse in quegli anni davvero ero semplicemente troppo arrogante e troppo solitario per frequentare un corso. A mali difficili, difficili rimedi – e così ho lasciato l’Italia.
Dopo una prima estate a Friburgo, dove mi sono messo al banco di prova della realtà, ho visto che il mio tedesco parlato ridicolmente letterario, modellato sui copioni di Heimat e del Nuovo Cinema Tedesco, per metà imitazione, per metà citazione, in fin dei conti funzionava, provocava (soprattutto curiosità). Del resto sembrare normale era l’ultima cosa che mi interessasse. Così mi sono convinto a fare il passo, a rimanere in Germania. Curiosamente, allora come adesso, nessun tedesco e nessuno straniero conosceva Heimat o Edgar Reitz. A parte giusto, forse, una ex-studente italiana conosciuta per caso e mai più rivista, geniale dilettante della creazione, che aveva la padronanza di quel mondo e sapeva citare scrittori, pittori, cineasti, e soprattutto musicisti a ripetizione. Curiosamente non tanto perché conoscesse le loro opere, ma perché era stata in cerchie di persone creative che conoscevano quegli scrittori, pittori, cineasti, e soprattutto musicisti, e insomma aveva fatto, insieme a loro, l’amore, reale o figurato.
A quei tempi mi piaceva pensare che proprio per l’innamoramento del pensiero di una nuova Heimat avessi lasciato la mia vera patria: per una patria elettiva – astratta, volatile, ideale. E l’idealismo, si sa, è assieme al romanticismo la grande corrente espressa dal pensiero tedesco. Proprio quella compagine di idealistici artisti messa in scena nella seconda Heimat è come un cenacolo ideale, cosi ideale che tutti i suoi componenti sono ugualmente bravi, tanto che né l’invidia né il suo antidoto, la modestia, sembrano esserci. «Creare e amare senza paura (del giudizio) degli altri».
Questa idea è diventata, negli anni prima e durante la Germania, la mia comoda utopia, sicura e abitabile, a prova di delusioni: viverci dentro era tutto ciò che mi impediva di realizzarla, di avere come amici un gruppo di artisti così; sognare l’arte, l’amore e la militanza era tutto ciò che mi impediva di farle. Continuavo a non accorgermi che la Germania universitaria post-’10 non era la stessa del ’68: qui ora dominavano idee pallide, all’acqua di rosa, sentimenti mediocri e scarsa apertura verso l’altro, come per paura della violenza insita in ogni incontro/scontro, quel conflitto bello, positivo. E poi molto umanitarismo e poco umanismo, molta coscienza di genere e poca di gruppo e soprattutto tanto, tanto individualismo spinto.
Però a me i tedeschi sembravano comunque ancora tutti così, come gli efebi della villa di Monaco: esseri inarrivabili, i geniali fratelli maggiori che non ho mai avuto, epigoni della generazione sessantottina, quella dei nostri genitori. In effetti, la II. Heimat parla spesso dei loro genitori, quelli che malauguratamente avevano fatto la guerra, e degli avi; dice che il vecchio mondo dei matusa è morto. Tutte e 3 le serie di Heimat sono imperniate contrasto fra luogo di provenienza e luogo di arrivo, fra Heimat ereditata e Heimat acquisita. Fra tempo dei matusa e tempo (post?)moderno. Ma nell’intera seconda serie si parla soprattutto di una rinascita, esplicitamente, senza requie: dobbiamo rinascere, non più da corpi estranei, casuali, ma dalla nostra testa, come e dove vogliamo noi. Noi siamo artisti e quindi anche artefici del nostro destino, se solo lo vogliamo.
La volontà è la chiave di tutto, mentre l’amore è solo una conseguenza! Questo messaggio non capivo allora, non avevo dentro di me, e dentro di me non ho avuto per troppo lungo tempo: che l’arte è una gran bugiarda. In definitiva è grazie o per colpa di questa opera d’arte che mi sono innamorato della Germania e quindi, necessariamente, di un’astrazione ideale, per quanto bellissima: e, siccome ogni vero innamoramento romantico è sempre necessariamente non corrisposto, così è stato anche in questo caso. Ora, qui in Germania io non ci sono nato, ma è qui che ho avuto la mia prima fidanzata, ho adottato il tedesco come mia lingua di creatività, mi sono laureato, ho trovato il mio primo lavoro, ho perfino quasi dimenticato Heimat, fino ad oggi. Oggi ho 27 anni e tutti, qui in Germania, seguitano a non conoscere Heimat ed Edgar Reitz, che nel frattempo fanno parte del mondo dei matusa, lontanissimo. Per noi ancora-non-matusa, geniali dilettanti dei tardi anni ’80, è tempo di reclamare a se questo mondo, riconquistare le nostre prime e seconde patrie, reali o astratte che siano.
«L’innamoramento per me non è più in considerazione» – penso spesso –, ma è quello che pensano tutti prima di innamorarsi di nuovo.
Però almeno adesso so con certezza una cosa.
Che la Germania, questa mia Germania, sarà per me sempre una raffigurazione del mondo, la sostanza del mio primo addio alla patria, e so pure che, anche quando finalmente riuscirò a dire addio a questa seconda, penserò: «che lungo addio è stata per me questa Germania, all’Utopia!»

Franz
(27), als Francesco R. bei Turin (Italien) geboren, ist Netztagebuchautor und Musiker; er wählt Deutsch als Kultur- und Wissenschaftssprache. Außerdem leitet er das italienischsprachige Kollektiv Visioni Proprie (Eigene Anschauungen).
Mail: franz@visioniproprie.eu

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